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Da Milano a Barcellona.

Architettura italiana nelle riviste catalane negli anni della Transición

Marco Lecis

My purpose is to study a particular moment in the history of architectural theories in Spain during which forces as powerful as Catalan identity and Italian influences played a major role.In the mid ‘70s the libertarian tensions of Catalan culture urge to reconfigure themselves in the new democratic frame and start looking outside the country, depicting themselves as an emancipating and cosmopolite force. At the same time Italian architecture plays a role in the process: some protagonists of Milanese debate, like Rossi and Gregotti, were building their international reputation, just starting from the Iberian peninsula. In that very moment their work has been used in the Spanish scenery to define a new international profile for Catalan architecture and to reconsider some figures of his canon (Cerdà and Sostres, for example). Analyze the intersection between these components could be fruitful to point out the role that architectural theories were playing in that social and cultural context: a role that went far beyond their disciplinary purposes and their programmatic statements. 

The following text has been presented at the international conference THEORY’S HISTORY196X-199X, in Bruxelles, in February 2017. This essay is unpublished and it has been expanded in the volume Marco Lecis, Realismi e utopie con logo del Martini. Architetti italiani e riviste catalane nel dibattito di fine secolo, printed by Recolectores Urbanos (ISBN 978-84-949663-8-5, Malaga 2019).

La corrispondenza tra luoghi e architetture sfugge ad una riduzione troppo deterministica: molti tentativi di individuare in maniera univoca l’identità dell’architettura italiana o spagnola del XX secolo sono apparsi troppo forzati o troppo generici. Fuori da tali macrocategorie si può provare ad individuare episodi più specifici in cui l’architettura viene deliberatamente utilizzata come strumento identitario, impiegata come riferimento per una comunità ed elemento catalizzatore: in questi casi circoscritti si può provare a fare emergere modi e strategie utilizzate per definire un profilo locale senza attribuirgli valori assoluti o trascendenti, ma puntuali e orientati. Si tratta di momenti che non sono statici, di mera corrispondenza tra luogo e architettura, ma dinamici, di trasmissione e di passaggio di figure, con fenomeni sia di rispecchiamento, sia di fraintendimento e reinvenzione. Definiscono un campo complesso, non monodirezionale, ma attraversato da più tensioni.

 

Queste considerazioni sono state per me importanti nello studio dei rapporti tra le culture architettoniche italiana e spagnola del secondo Novecento. Lo studio, legato al mio trasferimento da Milano a Barcellona, aveva come obbiettivo quello di fare emergere i caratteri dell’architettura italiana individuandoli per complementarità con quella spagnola. Nel corso del lavoro il senso della ricerca è però cambiato e alcune interpretazioni acquisite hanno perso di evidenza: le letture consolidate vedono in un primo tempo l’Italia in posizione dominante, con la Spagna che soffre la chiusura culturale del regime. Una relazione che va poi a rovesciarsi al volgere del secolo. I ruoli definiti non sono però così netti: negli anni ’70, per esempio, il profilo internazionale di certe correnti italiane comincia a definirsi proprio attraverso le letture e la diffusione in territorio iberico e, dall’altra, la loro ricezione diviene in Spagna strumento essenziale nella ridefinizione di un’identità culturale sempre più aperta dopo l’isolamento, intenta a costruirsi come profilo di primo piano al passaggio del millennio. Inoltre, negli anni della Transición, la cultura architettonica catalana interpreta con maggior impeto il cambiamento e cerca un ruolo dominante nel paese proponendosi come primo interlocutore con le correnti internazionali.

 

Un campo di indagine capace di restituire con efficacia queste dinamiche è lo studio delle riviste di architettura nate negli anni ’70. Questo è un terreno particolarmente fertile in Spagna e, soprattutto, in Catalogna: le riviste madrilene, fino a poco tempo prima di riferimento, attraversano un momento di inflessione per la perdita dei loro direttori storici: nel ’73 Carlos de Miguel lascia la direzione di Arquitectura, la rivista del Colegio de Arquitectos de Madrid (che dirigeva dal ’48); nel ’77 smette le pubblicazioni Hogar y Arquitectura, la rivista de la Obra Sindacal del Hogar, diretta da Carlos Flores dal ’55, e infine, nel ’75, Juan Daniel Fullaondo chiude Nueva Forma, dopo un decennio di attività[i]. Contemporaneamente a Barcellona nascono pubblicazioni come Arquitecturas Bis e 2c. Construcción de la ciudad che, pur nelle rispettive differenze, aprono alle correnti estere costruendo il proprio ruolo attraverso reti internazionali e definendosi come parte del dibattito in corso fuori dall’isolamento imposto dal regime. Inoltre, in quegli anni, gioca un ruolo importante quella componente che Jean Louis Cohen ha chiamato l’Italophilie: cioè la forte suggestione che la cultura architettonica italiana esercitava a livello internazionale e il ruolo che alcune sue personalità emergenti stavano costruendosi in quello scenario.

 

Ecco dunque un intreccio in cui agiscono diversi fattori che si condizionano a vicenda e in cui il tema del rapporto tra architettura e identità locale può essere letto come una costruzione, politica e culturale, attraversata da molteplici vettori e condizionata da strategie con diverso grado di efficacia.

 

Circoscrivo il mio esame alle sole Arquitecturas Bis e 2c. Le riviste sono quasi coetanee, nascono nella prima parte degli anni ’70 a Barcellona e chiudono entrambe nel 1985. Sono realizzate da piccoli gruppi coesi, stabili nella loro configurazione (le poche integrazioni non ne modificano l’assetto nel corso degli anni). I due gruppi però sono diversi e questo si riflette anche sullo spirito delle riviste: la redazione di Arquitecturas Bis è riunita da Oriol Bohigas, già quarantenne e da tempo figura di spicco del dibattito architettonico cittadino e nazionale: gli altri membri del gruppo appartengono a diverse generazioni e alcuni hanno già esperienze pubblicistiche e formazione cosmopolita[ii]. Si può dire che la rivista sia l’esito di una politica di apertura e di relazioni costruita da Bohigas fin dalla partecipazione al Grup R e attraverso i Pequeños Congresos, e che ha momenti importanti nei legami con Vittorio Gregotti e Peter Eisenman. La rivista si costruirà infatti una posizione parallela con le coetanee Oppositions e Lotus, celebrata sulle proprie pagine attraverso il resoconto degli incontri tra i redattori. Nel gruppo ha un ruolo significativo Rafael Moneo, all’epoca professore alla Etsab di Barcellona e che sarà ospite all’IAUS di Eisenman a New York alla metà degli anni ’70. E importante sottolineare anche il legame degli altri redattori con la scuola di architettura di Barcellona di cui sono tutti professori: Bohigas e Correa, sospesi all’inizio del decennio, verranno reintegrati nel ’77, quando Bohigas ne diviene direttore. Infine la rivista è stata vista come laboratorio teorico per la trasformazione politica e architettonica di Barcellona che avverrà negli anni ’80 e che avrà per protagonisti alcuni membri del gruppo[iii].

 

La redazione di 2c nasce invece intorno alla figura di Savador Tarragò, all’epoca trentenne professore di storia dell’architettura, e riunisce soprattutto un gruppo di studenti neolaureati della facoltà di Barcellona[iv]. Il profilo del gruppo è più defilato rispetto a quello di Arquitecturas Bis, soprattutto nello scenario cittadino: attraverso la relazione privilegiata con Aldo Rossi però si costruisce occasioni importanti all’estero, tra cui la partecipazione alla Triennale milanese del ’73 e all’Interbau berlinese di Kleihues. In ambito spagnolo dà vita ad iniziative significative come la mostra Aldo Rossi + 21 arquitectos españoles, del ’75, e i seminari internazionali SIAC, dal 1976 ai primi anni ‘80. Tarragó, Martí, Armesto e Bonet acquisiranno anch’essi ruoli accademici.

 

La differenza tra le riviste si riflette nell’approccio ai loro contenuti, restituito anche dalle scelte grafiche. Arquitecturas Bis, già dal titolo, rivendica una posizione eclettica e pluralistica, è caratterizzata da toni e vivaci e aspira ad essere commento dell’attualità. Bilancia la volontà di apertura verso l’estero con la presentazione di temi legati alla storia dell’architettura di Barcellona e della Catalogna. 2c, fin dal primo editoriale, prova invece a individuare una linea culturale unitaria per il gruppo e accoglie le posizioni di Rossi e della sua Tendenza come riferimento. Ad esse sarà dedicato molto spazio nella rivista e nelle iniziative collaterali del gruppo. A conferma di ciò, gli editoriali e molti articoli sono a firma collettiva[v].

 

I due diversi atteggiamenti, uno eclettico e l’altro programmaticamente orientato, si riflettono anche nei modi della presentazione e nell’uso ideologico dei riferimenti alla cultura architettonica italiana selezionati per le loro pagine. A entrambe le riviste è generalmente riconosciuta una forte componente di italofilia, ma, se per 2c la figura di Rossi è predominante, nel caso di Arquitecturas Bis ci sono molte sfumature: i riferimenti alla cultura architettonica d’oltralpe comprendono diversi dei suoi protagonisti e la scelta tra questi riflette singole posizioni culturali, fino a poter essere utilizzata per definire schieramenti interni alla redazione.

 

Anche la costruzione grafica delle due riviste riflette le differenze di impostazione: Enric Sauté per Arquitecturas Bis disegna un formato inusuale, di grande dimensione, che rimanda all’immagine di un quotidiano. La rivista privilegia i testi rispetto alle illustrazioni dei progetti le cui immagini sono integrate con la parte scritta e raggruppate in composizioni. Juan Llopis sceglie invece per 2c una forma tendente al quadrato (23x26cm) e un ritmo più disteso nell’alternanza tra testo e immagini. Sono spesso presenti aree vuote e pagine dedicate a una sola figura. Queste scelte permettono di pubblicare i disegni in dimensioni molto ampie che ne consentono una lettura più chiara. L’uso del colore, utilizzato solo per la copertine, è sempre controllato e ridotto alla bicromia, ma lo spettro è più ampio che per Arquitecturas Bis: margini bianchi contengono la testata e i titoli, nel riquadro centrale è disposta un'unica immagine. La sobrietà generale non rinuncia comunque a certi toni pop, come nel caso della copertina dedicata a Cerdà per il centenario o quella, emblematica, dell’ultimo numero, dedicata alla “linea dura” del razionalismo: qui scompaiono i margini bianchi e un unico fondo rosso ospita il titolo al centro con un frammento di un disegno di Hannes Meyer.

 

Arquitecturas Bis si occupa dell’Italia a più riprese: gli episodi più significativi sono legati alla presentazione di alcuni profili, protagonisti già riconosciuti, che hanno segnato più che l’attualità del tempo, le vicende precedenti. Il primo profilo pubblicato è dedicato a Ludovico Quaroni, nel terzo numero della rivista (settembre ’74, nella forma di un’intervista di J. Español). Seguiranno articoli dedicati a Adriano Olivetti (n.8, giugno ’75, con testi di J. Rykwert, F. Sagarra, R. Moneo e i progetti di Stirling e Le Corbusier), Mario Ridolfi (n.21, marzo ’78, con un testo di F. Prosperetti sugli interventi nel centro storico di Terni) e Alberto Sartoris. Quest’ultimo gode di una certa visibilità nella rivista e compare in ben tre occasioni: nel numero 21, del marzo 1978, con un proprio testo sul primo CIAM; nel numero 25, novembre ’78, con un articolo monografico di Bohigas accompagnato dalla presentazione delle sue opere; e infine nel numero 52 del dicembre del 1985, l’ultimo della rivista, con un nuovo articolo a propria firma dal tono programmatico, La actualidad del racionalismo. Sartoris aveva svolto un ruolo importante nell’apertura culturale dell’architettura spagnola del dopoguerra e, in particolare in Catalogna, aveva condizionato il recupero e la lettura post-razionalista di Gaudí e Cerdà[vi].

 

Sono da citare anche gli scritti riguardanti Giuseppe Samonà e Ignazio Gardella. Al primo è dedicata gran parte del numero 33, del marzo/aprile del 1980, con testi su di lui e la scuola di Venezia, un’intervista e una rassegna delle opere (tra gli autori: V. Pastor, F. Prosperetti, F. Leoni, G. Ciucci, M. Tafuri, F. Dal Co). Al secondo è riservata una lunga intervista di Correa nel numero 35, gennaio/marzo ‘81, con illustrazioni a tutta pagina dedicate però alle opere dell’ante-guerra.

 

Nel ricordo di molti e degli stessi redattori rimane però sintomatico il numero 4, in cui l’architettura italiana irrompe nella sua attualità attraverso le figure di Rossi e Gregotti. Il numero di Arquitecturas Bis del novembre del 1974 è infatti uno dei numeri più d’impatto della serie. Lo è perché chiude la prima annata e per l’efficacia di presentazione e discussione dei suoi contenuti. La prima pagina compone le fotografie dei due architetti italiani sotto un titolo che imita il logo del Martini e che gioca con la fama e il ruolo che i due si stanno costruendo nel dibattito internazionale. Il titolo recita: “Gregotti & Rossi”, con i nomi appaiati con una “e” commerciale. Nel numero Moneo, Bohigas e Quetglas discutono pensiero ed opere dei colleghi italiani e i due profili sono utilizzati per definire posizioni più generali in riferimento alle quali i redattori sembrano prendere partito[vii]. Moneo scrive il testo che compare in prima pagina e fa da introduzione; Quetglas e Bohigas si occupano il primo di Rossi e il secondo di Gregotti e i loro articoli sono accompagnati da numerose illustrazioni delle opere, dei disegni e dei progetti dei due autori.

 

Moneo esamina in parallelo, citando Plutarco, le posizioni dei due[viii]. L’accostamento, giustificato inizialmente da ragioni geografiche e biografiche, serve in realtà a fare emergere una complementarietà: Gregotti è descritto per primo e il suo lavoro è presentato come caratterizzato da una generale apertura, come il tentativo di chi prova a comprendere, attraverso l’architettura, la complessità irriducibile della realtà. Rossi diviene, all’opposto, il difensore dell’identità della disciplina, che, da un punto di vista interno, prova a determinare i condizionamenti che il proprio campo esercita verso l’esterno.

 

Di Gregotti sono poste in risalto la ricerca di un metodo razionale, che non parte dal presupposto di leggi intrinseche, ma, in continuità con l’eredità dei maestri del movimento moderno, si definisce di volta in volta, evolvendosi come strumento di interpretazione di contesti e condizioni storiche. “Gregotti hará… suya la divisa de Rogers cuando hablaba de “la utopía de la realidad” e intentará expresarse desde la obra, desde la práctica profesional… la arquitectura  no es… solo un ejercicio mental. Se la intende desde su hacerse”[ix].

 

La posizione di Rossi è descritta invece nel senso della rottura con la prima modernità architettonica, con il funzionalismo e la sua astrazione del luogo e l’omissione della relazione strutturale tra architettura e città. Nel suo caso il primato va a un’idea della disciplina con un alto grado di coerenza e costanza nel tempo, che si definisce attraverso leggi interne indipendenti dalle trasformazioni delle singole epoche. Quella di Rossi è una utopia dell’architettura che Moneo esplicitamente oppone all’utopia della realtà di Gregotti. Lo spagnolo insiste anche nel voler liberare da proiezioni nostalgiche la posizione di Rossi: per lui “La formación de los actuales arquitectos…. es incapaz de abordar la extensión de la ciudad desde la disciplina que la constituye, desde la arquitectura, y sólo un nuevo «descubrimiento» de los principios lo hará posible de nuevo; esta sería, en ultimo termino, la propuesta activa, esperanzada de Rossi, ajena de cualquier posible nostalgia”[x].

 

In quel momento Moneo scrive su Rossi anche un testo più lungo, diffuso all’università di Barcellona e che diviene un articolo per Oppositions nell’estate del 1976[xi]. Lo scritto presenta il pensiero dell’architetto Milanese e il suo progetto vincitore per il concorso per il cimitero di Modena. Moneo diventa così uno dei primi esegeti di Rossi fuori dall’Italia e attraversa una fase di grande corrispondenza e affinità con la poetica del collega. Eisenman ricorda come sia stato Moneo ad avergli parlato per primo di Rossi e dunque il ruolo dello spagnolo è stato cruciale nella costruzione della fortuna del milanese negli Stati Uniti.

 

All’articolo di Moneo su Arquitecturas Bis segue il testo di Quetglas dedicato al solo Rossi e alla discussione di due progetti: la Casa Bay a Borgo Ticino e il quartiere Gallaratese. L’articolo è introdotto da due immagini, l’accostamento simmetrico tra la pianta della Palladiana villa Repeta e quella del progetto pavese. Biografia e bibliografia dell’architetto milanese incorniciano i due disegni. Quetgals costruisce a più riprese un parallelo tra Palladio e Rossi e cita anche Tessenow e Neutra: per lui sono accomunati da una visione anti-domestica dell’architettura, un ideale architettonico autonomo e resistente, che Quetglas legge, nel caso rossiano, come riflesso di una posizione aristocratica, propensione malinconica per una bellezza pura e inattuale. Questo testo ha un segno inverso rispetto a quello di Moneo: la ricerca di Rossi perde il tratto progressivo e diviene contemplazione tragica di un ideale trascorso.

 

Al pezzo di Quetglas, segue l’articolo di Bohigas su Gregotti[xii]. Lo scritto è accompagnato da molte immagini che cambiano il tono delle pagine precedenti: dalle atmosfere sospese dei disegni rossiani – accostati significativamente ad alcuni di Tessenow - si passa ad una sequenza serrata di edifici costruiti da Gregotti, seguiti dalle ampie prospettive dei progetti a scala territoriale. Bohigas presenta Gregotti nel contesto della cultura italiana dell’epoca, confrontandolo con Aymonino e Rossi. Per lui il collega è “un exponente de esa nueva esperanza, a la vez lejos de la útopia, del profesionalismo consumista… y del diletantismo académico, pero estrechamente controlado por una base teórica firme e comprobada”[xiii]. Bohigas parla della “mentalidad realizativa” di Gregotti e analizza nel dettaglio il suo metodo progettuale attraverso alcune opere: “Gregotti trata de construir una teoría sobre las mismas experiencias reales del proceso de diseño y de realización arquitectónica. Y esa teoría se reinvierte luego en la misma obra, de manera que llega a constituir… el elemento significativo de su forma.” Quest’ultima “por su  expresa y retorica carga significativa” diviene “propaganda de sí misma”. E dunque, la architettura di Gregotti “es a la vez un servicio, un modelo y un manifiesto teórico”[xiv]. Ciò che affascina Bohigas è la ricerca di un rigore teorico, di una tensione paradigmatica, attraverso la pratica costruttiva. E certo questo è un aspetto in cui si riconosce e che, tra Rossi e Gregotti, gli fa scegliere il secondo, in una posizione opposta a quella che al momento sembra essere quella di Moneo. Più avanti però anche Moneo prenderà le distanze da Rossi, riconoscendosi in un metodo più empirico, di ascendenza rogersiana, in effetti vicino alla posizione attribuita nel ’74  a Gregotti.

 

A proposito del dibattito interno della rivista e del ruolo giocato dai dei due architetti italiani, si può anche ricordare come, mentre il numero 4 di Arquitecturas Bis è l’unico dedicato a Rossi, Gregotti è invece una presenza più frequente e pubblica anche testi a propria firma[xv].

 

Come anticipato anche 2c pubblica molti lavori di architetti italiani. La rivista, nasce però sotto il segno di Rossi, della sua architettura e del suo libro. La prima edizione straniera de L’architettura della città è quella spagnola del ‘71 ed è curata da Tarragó che ne scrive una lunga introduzione (datata ’68). L’incontro personale con Rossi segna il gruppo e la rivista: una lunga intervista con l’architetto milanese inaugura il numero 0 e a lui sono dedicati ben tre numeri monografici: il 2 (aprile '75), il 5 (ottobre '75) ed il 14 (dicembre ‘79). Inoltre numeri monografici sono dedicati anche a Giorgio Grassi (la prima pubblicazione monografica dei lavori dell’architetto, il n. 10 del dicembre del ‘77) e a Giuseppe Terragni (n. 20/21, novembre 1982). Il numero 12, del dicembre ’78, è dedicato al Veneto e allo IUAV di Venezia: illustra progetti di Gianugo Polesello, Luciano Semerani, Franco Stella e Giulio Dubbini, insieme con alcuni lavori di studenti.

 

Il rapporto con Rossi è dunque molto più intenso che per i redattori di Arquitecturas Bis e la rivista tende ad acquisire la posizione rossiana come propria. Già nell’editoriale del numero 0 l’analisi post-marxista del ruolo sociale dell’architetto approda alla difesa della specificità della disciplina e della corrispondenza tra analisi urbana e progetto: come si vede, i temi rivendicati da Rossi. I due numeri monografici dedicati al milanese, del ’75 (successivi quindi al numero 4 di Arquitecturas Bis), sono di nuovo introdotti con un editoriale collettivo che si prefigge di chiarire la posizione di Rossi e di liberala da interpretazioni improprie: un atteggiamento che ancora riflette una dichiarazione di appartenenza e la rivendicazione di un ruolo. Nei tre numeri, oltre all’intervista già citata, viene dato spazio direttamente alla parola di Rossi anche attraverso diversi testi da lui firmati[xvi] che vengono accompagnati da alcuni apporti critici a firma del gruppo 2c, di Ezio Bonfanti, Vittorio Savi, Paco Torres e Rafael Moneo.

 

Tra quelli citati, il numero 14 di 2c, il terzo dedicato interamente a Rossi, è interessante perché costituisce un primo bilancio del rapporto con l’architetto milanese. A provare questo bilancio non è solo la redazione della rivista, ma anche Moneo, che pubblica in queste pagine il suo terzo scritto importante sull’autore. Nella rivista, intitolata Aldo Rossi: quatro obras construidas, sono pubblicati disegni e fotografie di tre edifici: la scuola di Fagnano Olona, il cimitero di Modena e le case a Mozzo. La quarta ‘opera construida’ è il Teatrino scientifico, che è oggetto dell’attenzione di Moneo.

 

“Que motivos tiene 2c para esta insistencia en el arquitecto italiano?”[xvii]. I redattori di 2c si sentono chiamati a spiegare la loro scelta di posizione e lo fanno sia nell’editoriale, sia in un articolo più lungo pubblicato a metà della rassegna delle opere presentate[xviii]. Contro quelle che definiscono mistificazioni dovute alla fortuna rossiana, e come presa di distanza dal “repliegue sobre su obra”, riconosciuto in qualche modo come una involuzione autobiografica del lavoro di Rossi, difendono il carattere “personal y positivo” della loro adesione, che vuole rimanere legata sopratutto ai temi più generali e trasmissibili della sua ricerca. In particolare criticano chi ha interpretato in maniera troppo restrittiva l’idea di autonomia dell’architettura di Rossi, che vedono invece come il riconoscimento di  un“corpus” disciplinare a partire dal quale deve nascere la necessaria dialettica tra architettura e realtà. A loro modo di vedere tale dialettica non è per Rossi esclusiva della città storica, ma valida per la città nel suo insieme e nel suo sviluppo futuro.

 

Lo scritto di Moneo è invece incentrato sul rapporto tra i disegni di Rossi e le prime opere realizzate, illustrate nella rivista[xix]. L’architetto navarro vorrebbe quasi rovesciare il primato che generalmente nel rapporto si accorda alla costruzione: per lui i disegni rossiani sono dotati di tale espressività da aver forzato la realizzazione di modo che l’immagine reale non tradisse i caratteri di quella evocata sulla carta. Lo scritto è infatti introdotto dalla descrizione del teatrino scientifico, dispositivo di collezione e ricombinazione delle immagini architettoniche selezionate dal suo autore, e sembra alludere a una dimensione soprattutto autoreferenziale, più forte perfino del cantiere e della realtà della città. Moneo chiude lo scritto così: “la imagen no es ahora el reflejo de otra realidad; la imagen es la realidad misma. A ella toda gloria”.

 

Sulle pagine di Arquitecturas Bis e 2c, attraverso i riferimenti all’architettura italiana, gli architetti spagnoli costruiscono il loro apporto alla definizione di alcuni degli ideali che hanno attraversato la cultura architettonica negli anni ’70. Facendo questo stabiliscono anche un nuovo profilo per l’architettura del loro paese, un profilo in cui le tensioni interne si fissano con nuovi rapporti di forza.

 

La scelta dei rifermenti è determinata dalla volontà di posizionamento, ma in essa contano anche le occasioni particolari e i rapporti personali. La presentazione e l’uso della figura di Rossi, per esempio, sono in questo senso sintomatici: la sua fortuna si costruiva in quegli anni e, come si è visto, la sua ricezione in terra iberica giocava in questa costruzione un ruolo decisivo. Per questo la presentazione delle opere e del pensiero dell’architetto milanese risulta caratterizzante sia per chi aderisce alle sue teorie, sia per chi gli resiste.

 

Rosi però è solo una delle figure in campo: altri protagonisti dell’architettura italiana sono anch’essi utilizzati nella definizione del quadro strategico più ampio. Non si è potuto approfondirlo in queste righe, ma è altrettanto importante la ricostruzione di una genealogia di un razionalismo alternativo a quello rossiano, un razionalismo critico, sempre di matrice italiana, ma derivato dagli ideali della prima modernità: questa linea ha figure centrali in Sartoris, Quaroni e Gradella, e approda prima a Rogers, poi a Gregotti. È una linea celebrata in Arquitecturas Bis. E un altro aspetto notevole è il modo in cui l’influenza italiana condiziona il recupero e la ricostruzione di episodi della storia moderna dell’architettura spagnola e catalana: ricostruzioni che hanno un ruolo non secondario nel nelle due riviste. Si pensi, per esempio, alle riproposizioni di Cerdà, di alcune personalità del modernismo come Jujol o Rubió i Bellver, o ancora Torres Clavé.

 

 

[i] A questo proposito si veda l’articolo di Flavio Coddou, La Genesis de Arquitectuas Bis, in  Las revistas de arquitectura (1900-1975): crónicas, manifiestos, propaganda, T6 Ediciones SL, Pamplona 2012, pp. 411-418

[ii] Il Consejo de Redacción di Arquitecturas Bis è formato da Oriol Bohigas, Federico Correa, Lluis Domènech, Tomás Llorens, Rafael Moneo, Helio Piñon, Manuel de Solà-Morales e Enric Satué, che è il grafico. Dal n.27 sarà indicato come redattore anche Luis Peña Ganchuegui. Rosas Regas è direttrice e editrice. L’editore della rivista è La Gaya Ciencia.

[iii] Si veda al proposito la tesi di dottorato di Joaquim Moreno, Arquitecturas Bis (1974-1985). From publication to public action, Princenton University 2011.

[iv] Oltre a Tarragó, che è il direttore, fanno parte del gruppo Carlos Martí Arís (subdirector), Antonio Armesto Aira, Juan Francisco Chico Contijoch, Antonio Ferrer Vega, Juan Carlos Theilacker Pons, Alejandro Marín-Buck Albacete (che lascia dopo il numero 0), Yago Bonet Correa (dal numero 1), Santiago Padrés Creixell (dal n.8), Santiago Vela Parés (dal n. 8), Xavier Monteys Roig (dal n. 17-18). Cura la grafica Juan Llopis Maojo. José Dalmau Salvia appare quale direttore nel solo numero 0.

[v] Sulle due riviste e sui profili dei loro relatori si vedano anche: Simona Pierini, Passaggio in Iberia, Marinotti, Milano 2008; Carolina Garcia Estevez, Tan cerca, Tan lejos: Aldo Rossi y el Grupo 2c, in “Progreso, progreso. Arquitectura”, n.11. Novembre 2014, pp. 104-117; sulla figura di Carlos Martí Arís la tesi di dottorato di Fabio Licitra, Carlos Martí Arís e i suoi eteronimi. Vocazione all'anonimo, Università di Bologna 2014.

[vi] A tale proposito si veda, Victoriano Sainz Gutiérrez, El proyecto urbano en España, Universidad de Sevilla , Siviglia 2006, pp.78-79.

[vii] Nello stesso numero ci sono anche due articoli non direttamente collegati alla presentazione delle opere degli italiani, ma che li contrappongono o assimilano ad altre posizioni di protagonisti internazionali: in uno sono discusse e assimilate le posizioni antifunzionaliste di Rossi e Robert Venturi (Rossi y Venturi frente a frente, Rossi e Venturi frente a Taut, p.32), nell’altro - dedicato da Manuel de Solá-Morales alla Scuola di Cambridge di Leslie Martin - l’esperienza del gruppo inglese viene descritta ancora in parallelo con il pensiero Rossiano sull’architettura e la città (Manuel Solá-Morales, Los nuevos geometras. La Escuela de Cambridge, in “Arquitecturas Bis”, n. 4, noviembre 1974, pp. 23-25).

[viii] Rafael Moneo, Gregotti & Rossi, in “Arquitecturas Bis”, n.4, novembre 1974, pp. 1-5.

[ix] Id. p.3.

[x] Id. p.5.

[xi] Rafael Moneo, La idea de arquitectura en Rossi y el Cementerio de Modena, Cátedra de Elementos de Composición, Monografia n.4 (dispensa fotocopiata), ediciones de la Etsab, Barcellona; poi tradotto in inglese con il titolo Aldo Rossi: The Idea of Architecture and the Modena Cemetery, in “Oppositions”, n.5, estate 1976, pp.1-30.

[xii] Oriol Bohigas, Gregotti, o una estructura teórica desde una práctica proyectual. in “Arquitecturas Bis”…, p. 15-22.

[xiii] Id., p 15.

[xiv] Id., p.22.

[xv] Compare già nel numero 3, con un articolo sulla Biennale veneziana che dirige, ed è poi citato come direttore di Lotus (in un articolo sul nuovo corso della rivista che compare proprio in coda all’articolo di Bohigas sul n.4) e partecipa di nuovo anche in numeri successivi (per esempio nel numero 41 dedicato a Khan).

[xvi]  La arquitectura analoga, n. 2, p. 8-11; un testo sulla XV Triennale firmato insieme a Gianni Braghieri e Franco Raggi, n.2, pp12-13; Mi exposición con arquitectos españoles, n.8, p.23;, Introducción al seminario, n.8, p.60; Estas obras construidas, n.14, p.7;  inoltre i progetti pubblicati sono accompagnati da un testo dell’autore.

[xvii] La citazione è ripresa dall’editoriale del numero 14 di 2c, p.5.

[xviii] Aldo Rossi: realidad y proyecto, in “2c. Construcción de la ciudad”, n.14, pp. 20-22.

[xix] Rafael Moneo, La obra reciente de Aldo Rossi: dos reflexiones, in “2c.Construcción de la ciudad”, n. 14, dicembre 1979, pp.38-39.

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