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Geografie del progetto.

Dialogo come azione di insediamento

Marco Lecis

Let’s say the project is a dialogical practice, an exercise in listening and comparison with a plurality of external conditions: so, the first moment of this dialogue, is surely the dialectic with the site, with the characters, physical and cultural, of the space that will have to embrace the new architecture intervention. In some cases, it is this first confrontation that is crucial and that provides the synthetic image that defines the building once it has reached its final completion.

The following text has been published in the volume Pier Francesco Cherchi, Marco Lecis, Progetto pratica dialogica. raccontare le culture plurali dell'architettura, printed by Libria (ISBN 8867640909, Melfi 2017).

1. Dinamiche del dialogo e tracciamento del campo

Nel dialogo emerge il confronto dell’opera con gli elementi esterni ad essa: con essi entra in relazione e con essi deve avviare una negoziazione. Il profilo dell’oggetto si fa più sfumato e si confonde con le condizioni ai suoi margini. Il progetto perde il carattere introverso e si apre verso l’esterno: tende a divenire una strategia di relazione, di ridefinizione e messa in gioco dello spazio su cui agisce.

In architettura questo cambio di prospettiva ha conseguenze importanti: molti dei temi consueti – come le ragioni costruttive e le retoriche della forma – perdono il primato. Acquisiscono invece grande evidenza la capacità di interpretazione del luogo e l’efficacia delle strategie di insediamento. Vorrei trattenermi su questi aspetti legati alla definizione del campo. È l’avvio dell’azione progettuale: prima della scelta dei pezzi è importante definire dimensioni e geometrie della scacchiera.

Dopo la modernità, la cultura architettonica ha molto discusso sui modi di definizione dell’opera in rapporto al luogo. I momenti più intensi del dibattito hanno però portato all’irrigidirsi di opposizioni ideologiche: da una parte un’ottica di conservazione, legata ad analisi storico-filologiche e a interpretazioni trascendentali dei caratteri dei luoghi, dall’altra un approccio nichilista, che ostenta indifferenza per il tema. Altre discipline ed esperienze parallele della composizione hanno però descritto la relazione dell’opera con il suo ambiente in termini più liberi e immaginativi.

 

2. Sculture in espansione: dall’opera all’ambiente

Quando Carl Andre allestisce Cuts, nel 1967, copre il pavimento della Dwan Gallery di Los Angeles con lastre modulari di cemento, lasciando libere soltanto alcune porzioni della superficie. La disposizione dei vuoti – i tagli, “cuts” – corrisponde in negativo all’installazione Equivalents I-VIII, proposta da lui stesso a New York l’anno prima. A Los Angeles i vuoti sostituiscono i volumi, gli oggetti scultorei presentati a New York.

La condizione di presenza fisica dell’opera è rovesciata: l’intervento dello ‘scultore’ rifiuta di esplicitarsi come evidenza plastica e sceglie di aderire alle condizioni spaziali di partenza, all’orizzontalità e al perimetro del suolo della galleria. In più, con una radicalizzazione del processo avviato da Andre nelle opere precedenti, l’artista agisce per sottrazione, attraverso i “tagli”: l’opera, divenuta strategia di configurazione dello spazio, prova a smaterializzare, a obliterare il mezzo tecnico con cui è messa in atto.

Dal 1970 Richard Serra porta i propri interventi all’esterno dello spazio delle gallerie, in rapporto diretto con paesaggi naturali ed urbani. Succede con Pulitzer Piece: Stepper Elevation, con Shift e con To Encircle Base Plate Hexagram, Right Angles Inverted. I primi due interventi sono realizzati in un giardino e in un parco, l’ultimo sulla 183ma strada, nel Bronx di New York. Qui un anello d’acciaio, di circa 8 metri di diametro, viene affossato nell’asfalto ad occupare tutta la larghezza della carreggiata. La forma non emerge come volume, ma appare solo come traccia a livello del suolo. Il cerchio, figura primaria, rimisura per contrasto uno spazio reale, povero, denso di materia e di residui. Il luogo sembra reagire al trauma dell’intervento dell’artista con lacerazioni e smottamenti: gli effetti del processo di installazione sembrano estendersi oltre le crepe sull’asfalto, sui marciapiedi divelti e sulle recinzioni in degrado.

«The strategy that is employed in Serra’s work is to create a point from which the viewer can sense the logic of the work structure…. Thus, the point which one gets the “logic” is one of extreme tension with the external, perceptual facts of which the work is composed» [1]. Per Rosalind Krauss, nelle opere di Serra dei primi anni Settanta, l’attenzione si sposta dalla sintassi interna all’intensità della tensione – “extreme tension” – con le condizioni ai margini.

Andre e Serra operano una riduzione formale radicale, portano i segni delle loro azioni tecniche al grado zero della pura evidenza: orizzontalità e tagli tendono a dissimulare la presenza dell’opera, ribaltandola quasi in una assenza. Al di là delle scelte formali, ciò che qui interessa è il rovesciamento della relazione tra opera e ambiente, l’assunzione di quest’ultimo come elemento cardine. È su di esso che l’artista intende agire, accogliendone caratteri ed elementi preesistenti e utilizzandoli a fini espressivi. La centralità del luogo come campo d’azione è importante: l’ambiente diviene componente significante e chi vi opera riconosce la propria responsabilità su di esso.

Queste esperienze porteranno a pratiche poi consolidatesi nell’arte contemporanea, agli allestimenti di ambienti di varie dimensioni, fino agli interventi a grande scala della land art. Gli esempi citati registrano il momento cruciale del passaggio dall’oggetto al “campo espanso” – secondo la celebre definizione della Krauss – aiutano a porre i termini del problema in un senso più generale, fuori dall’empasse dell’opposizione ideologica del dibattito architettonico.

 

3. «Solid and void really are one there»

Richard Serra confida ad Hal Foster la sua ammirazione per un’architettura di Le Corbusier: «Another crucial experience – I have notebooks full of drawings – was Le Corbusier’s Ronchamp, which I first visited in the same year. The solid and the void really are one there»[2]. Serra legge Ronchamp da scultore, come evento principalmente plastico: non fa riferimento a morfemi particolari, al disegno degli elementi singoli; parla di rapporti di pieno e di vuoto, del modo in cui l’edificio reagisce e si rende organico allo spazio che gli sta intorno.

La critica architettonica – soprattutto quella coeva all’inaugurazione della chiesa – si concentrò invece su questioni stilistiche, di appartenenza o abiura dei principi del razionalismo: l’aspetto più radicale dell’opera appare invece quello colto dallo scultore e va individuato nell’intensità del dialogo con lo spazio circostante.

«Giugno 1950. Sulla collina passo tre ore a prendere conoscenza del terreno e degli orizzonti. Per lasciarmene imbevere. […] Sulla collina avevo disegnato con cura i quattro orizzonti… a est, i ‘Ballond d’Aslace’; a sud, una valletta lasciata dagli ultimi contrafforti; a ovest, la piana della Saona; a nord, una valletta e un villaggio. Questi disegni… provocarono architettonicamente una risposta acustica – una acustica visuale, delle forme….»[3].

Le Corbusier racconta la prima visita sul luogo della cappella: parla di una ragione ‘acustica’ che lo avrebbe guidato nella concezione dell’opera. Non fa riferimento a simboli o significati trascendenti: descrive il dialogo dell’edificio con lo spazio intorno come un gioco di azione e reazione, un fenomeno di rifrazione sonora. Mette la relazione con il paesaggio al centro e pospone a problema di secondo grado il senso delle forme, il loro disegno specifico.

Ronchamp, come altre opere di Le Corbusier, interpreta questa dialettica in termini assoluti: un oggetto architettonico, coerente e compiuto, è messo in relazione con un paesaggio incontaminato, misurato sulla grande scala, per certi versi idealizzato. L’esempio della cappella vale dunque in senso generale per illustrare la centralità del rapporto tra edificio ed ambiente. Altri esempi possono aiutare a descrivere un approccio meno assoluto, più mediato, in cui i dispositivi formali utilizzati sono resi più astratti e, se si vuole, concettuali: impostano il rapporto con i caratteri del luogo in modo più interno e strutturale.

 

4. Figure architettoniche e figure di paesaggio

Farò riferimento a due architetture – un edificio e un progetto di concorso – elaborati in Italia a ridosso degli anni Settanta: si tratta dell’Unità Residenziale Olivetti a Ivrea, di Gabetti e Isola (con Luciano Re, 1968-71), e del progetto di concorso per l’Università di Cagliari, di Giuseppe Samonà (con collaboratori, 1972). Nonostante le differenze di scala e di destinazione d’uso, in entrambi i casi il progetto è determinato da una scelta simile, un gesto perentorio che determina e risolve la figura in rapporto con il luogo: lo scavo, l’affossarsi dei volumi al di sotto o in prossimità del piano di campagna. L’architettura cede il primato alle figure del paesaggio: ad Ivrea, la collina e i boschi circoscritti dal crescent, a Cagliari, l’orizzontale vasta del basso Campidano.

I due progetti sono descritti da due immagini, in entrambi casi molto famose: la prima è un acquerello di Aimaro Isola, il cui intenso pointillisme fonde esplicitamente geometria e natura; la seconda è la foto zenitale di un modello a scala territoriale, che fa emergere le linee del progetto con un tenue rilievo, come in uno stiacciato. Sono immagini indicative della relazione tra ambiente e progetto: una relazione più diretta e intima rispetto a Ronchamp. Figura di paesaggio e figura architettonica tendono qui a sovrapporsi, a collaborare, generando insieme la forza dell’immagine finale. Quelle impiegate sono forme astratte, primarie e di grande impatto: il semicerchio, una griglia regolare in estensione lineare, entrambi incisi nel terreno a definire una sezione caratteristica. Gli architetti si affidano ad esse dandone una declinazione essenziale, senza che sviluppi e articolazioni possano condizionare l’effetto della prima impressione.

Alcuni casi recenti, scelti questa volta in ambito iberico, possono precisare ancora questa forma di dialogo con il luogo e illustrarne la vitalità anche nel presente. Non si tratta di una filiazione diretta con le architetture appena descritte, ma di un’attitudine assimilabile, una strategia analoga nel confronto con il paesaggio e nell’interpretazione delle sue figure. 

Il primo caso è un’opera degli RCR Arquitectes, costruita nella Vall de Bianya, ad Olot, il piccolo centro della Catalogna dove ha sede lo studio. Un paesaggio che dunque è conosciuto e fortemente sentito anche in senso autobiografico. Si tratta della Casa Horizonte, del 2007. L’edificio si insedia in un contesto rurale, lungo la dorsale di un basso promontorio. Il volume ha sviluppo longitudinale e ridisegna di fatto l’orizzonte del crinale: si definisce come sequenza serrata di corpi cavi scatolari, cornici metalliche, accostate con ritmo variato. Le cornici sono un invito allo sguardo, evocano cannocchiali ed alludono alla vocazione panoramica dell’edificio. La ragione che dà forma all’edificio non può essere isolata dal rapporto con il suo ambiente: la figura fondante questa architettura si definisce in relazione biunivoca con lo spazio in cui insiste e, di fatto, coincide con la sua strategia di insediamento. Tale strategia definisce il progetto e lo caratterizza al di là delle opzioni formali puntuali, di una certa vocazione mimetica dei cromatismi.

L’enfasi posta sulla linea del crinale fa sì che il ritmo dei corpi cavi a sezione rettangolare si proietti e incida sulla massa terrosa. Si producono così tagli, trincee e avvallamenti, concepiti però dentro il rigore della geometria di partenza. Nei progetti degli RCR è riconoscibile la suggestione di certe figure delle neoavanguardie newyorkesi, dell’opera di Serra e Judd in particolare, ma, ancora una volta, è il tipo di relazione con l’ambiente che vorrei qui considerare.

Il secondo caso proposto è la Casa VT a Cadice, di Alberto Campo Baeza, completata nel 2014. La casa si configura come un’ampia piattaforma affacciata direttamente sul mare: dal piano non emerge nessun volume e la figura è tutta espressa dalla superficie orizzontale, scavata soltanto in punti isolati. L’architetto non cerca mediazioni empiriche con il paesaggio, ma imposta il suo volume duro ed essenziale sulla relazione con esso. Non ci sono sviluppi e articolazioni della figura di partenza e il progetto si risolve tutto nella sua evidenza immediata.

«…Desde el primer momento existe la clara y rotunda voluntad de que este plano sea el protagonista, la idea central de estos proyectos. Y si en los últimos se ha eliminado cualquier elemento emergente no es por voluntad de purismos ni de supuestos minimalismos. Al contrario, es tal la fuerza espacial de la plataforma horizontal frente a la naturaleza, que cualquier otro elemento podría desvirtuarla» [4].

La riduzione del progetto al puro piano orizzontale può essere vista come evoluzione in una sequenza di lavori di Campo Baeza: le case Olnick Spanu, a New York (2007) e Rufo, a Toledo (2009), ripropongono lo zoccolo monumentale, ma al di sopra di esso compare la figura stilizzata del tempio. Nella Casa VT invece il riferimento tettonico è omesso e la nuova architettura è tutta dentro il basamento. La Casa VT inoltre contraddice e rovescia una figura che è stata cara per lungo tempo al suo architetto: quella della massa cubica monumentale, del pieno compatto ed ermetico che si oppone chiuso al paesaggio (ne sono esempio molte delle sue case unifamiliari fino alla banca di Granada).

In questi progetti, figure elementari e di grande concisione esprimono la strategia di insediamento nel paesaggio: contemporaneamente le stesse figure divengono anche immagine cardine della composizione. La relazione con il luogo è intima e diretta, esprimendosi sopratutto nel disegno della sezione del terreno. Il lavoro di progetto comincia istituendo un legame con il suolo e il dialogo si articola a partire da lì, senza che nello sviluppo sia contraddetta l’impostazione iniziale. Edificio e ambiente tendono a coincidere, se non proprio materialmente, almeno come problema compositivo.

 

5. Insediamento, dialogo e contesto urbano

I progetti descritti fin qui sono una serie libera, svincolata da discendenze dirette e appartenenze riconosciute, individuata per la forza esemplare delle figure impiegate. I casi presentati illustrano una relazione semplificata, portata ai termini estremi: paesaggio costruito / paesaggio naturale. Il fascino e la difficoltà di una dialettica di insediamento crescono però a confronto con contesti meno chiari, più densi, più complessi: contesti come il paesaggio urbano, e, con un grado di intensità ancora maggiore, il paesaggio urbano storico.

Molte delle metodologie di intervento per i centri storici elaborate dalla seconda metà del Novecento appaiono oggi troppo rigide e deterministiche; non sembrano possedere un grado di tolleranza sufficiente per affrontare realtà ed immaginari urbani in trasformazione. È però ancora possibile lavorare con il patrimonio storico in termini di confronto e rielaborazione, evitando tanto i feticismi quanto le cancellazioni arbitrarie. La dimensione dialogica evocata nelle pagine precedenti ci sembra efficace in questo senso: è la dimensione in cui tutte le voci, quelle più radicate come le nuove, più legate alle necessità immediate, possono intrecciarsi, senza che nessuna, per scelta ideologica, si irrigidisca imponendosi come riferimento incondizionato.

E così come può risultare inadeguato ripetere una figura storica immaginandola separata ed autonoma, fuori dal tempo e già cristallizzata, allo stesso modo l’immagine nuova diviene inefficace se è soltanto autoreferenziale. Ogni figura, ogni voce nel ‘colloquio’, è integrata attraverso un negoziato: nel rapporto con gli altri elementi definisce i propri equilibri e le proprie tensioni, gli elementi di continuità e quelli di complementarietà e opposizione.

Come ho provato a illustrare nelle pagine precedenti, dal dopoguerra, alcune discipline del progetto hanno maturato una nuova consapevolezza riguardo la definizione dell’opera in relazione all’ambiente, hanno provato a rovesciare i valori tradizionali del rapporto.

Questa nuova disponibilità dell’opera, questa sua dimensione ‘espansa’ di efficacia, tesa a comprendere il paesaggio e lavorare con esso – la dimensione illustrata negli esempi descritti – prescinde dal tipo di paesaggio e può essere applicata con profitto anche nei luoghi delle città con stratificazioni più dense. La dimensione dialogica invita, fin dall’avvio del progetto, a riconsiderare i margini del ‘campo’, immettendovi i dati preesistenti, trasformando il progettista da demiurgo di nuove forme a interprete ingegnoso degli elementi dati. Questo, mi sembra, è il senso dell’esercizio fatto durante le esperienze di lavoro condivise con l’altro autore del libro: le esperienze descritte nella seconda parte del volume.

 

 

[1] «La strategia del lavoro di Serra è quella di creare un punto di vista dal quale lo spettatore possa percepire la logica strutturale dell’opera… il punto dal quale cogliamo questa logica è quello della tensione estrema con gli elementi esterni, le componenti percettive di cui l’opera è composta» [traduzione mia], da Rosalind Krauss, A view of a modernism, “Artforum”, Settembre 1972.

[2] «Un’altra esperienza cruciale – ho taccuini pieni di schizzi – è stata Ronchamp di Le Corbusier, che ho visitato per la prima volta lo stesso anno. Lì il pieno e il vuoto sono una cosa sola» [traduzione mia] da Building contra Image, intervista di Hal Foster a Richard Serra contenuta in Hal Foster, The Art-Architecture complex, Verso, London New York 2011, p. 225.

[3] Ronchamp, a cura di J. Petit, Editions Forces Vives, Desclée de Brower, Paris 1956, pp. 88-89, citato da Francesco Tentori e Roberto de Simone, in Le Corbusier, Editori Laterza, Roma-Bari 1987, p. 155.

[4] «Dal primo momento c’è la chiara e piena volontà che questo piano sia il protagonista, l’idea centrale di questi progetti. E se negli ultimi sono stati eliminati tutti gli elementi emergenti, questo non è successo né per una volontà di purismo, né per presunto minimalismo. Al contrario, la forza spaziale della piattaforma orizzontale di fronte alla natura è tale che qualsiasi altro elemento rischierebbe di sminuirla» [traduzione mia] da Alberto Campo Baeza, Plano horizontal plano, in Principia Architectonica, Research Papers, Columbia University, New York 2012, p. 41

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