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Forma e contenuto.

La dimensione dialogica

nel riuso dell’esistente

Pier Francesco Cherchi

In the process of modifying places, the architect has the task of mediation. He must negotiate between expectations and empirical conditions defined in reality. The dialogue becomes essential when the preexistence has lost its original functionality and the project is called to adapt it to new uses. A condition that unify the heritage of abandoned architecture, composed of civil, industrial, public and private buildings which, having lost their original functionality, become passive containers, inert elements in the network of economic and social relations of which they were once an active part.
Faced with the demands defined by the need to work on the traces of man's past activity, the project must aspire to reinterpret what already exists, according to a conception of reuse that is not merely instrumental, rather as a possibility of rethinking and innovation. In particular, the case in which the comparison with a place is also an opportunity for reuse is the theme studied in this essay.

The following text has been published in the volume Pier Francesco Cherchi, Marco Lecis, Progetto pratica dialogica. raccontare le culture plurali dell'architettura, printed by Libria (ISBN 8867640909, Melfi 2017).

1. Modificazione, confronto e negoziazione

 

Abbiamo detto, nelle pagine introduttive, che la pratica dialogica nel progetto è un atto non definitivo, ed è un percorso dove le molteplici posizioni si confrontano, mantenendo ciascuna la specificità della propria tradizione.  Nel dialogo l’opera prende corpo in un processo di raffronto e di scambio tra le culture plurali che, di volta in volta, costituiscono il campo della conoscenza e che regolano il processo creativo, tra queste: le preesistenze (intreccio di materia e cultura), i contesti, le tradizioni, le tecniche costruttive e le esigenze sociali e individuali.

 

Nel processo della modificazione dei luoghi, l’architetto ha il compito della mediazione. Egli deve negoziare tra le aspettative e le condizioni empiriche definite nella realtà. Questo confronto diventa essenziale quando la preesistenza ha perduto la funzionalità originaria e il progetto è chiamato ad adattarla a nuovi usi. Mi riferisco qui al patrimonio dell’architettura abbandonato, che è composto di edifici civili, industriali, pubblici e privati che, perduta la funzionalità originaria, sono divenuti contenitori passivi, involucri inerti nella rete delle relazioni economiche e sociali di cui un tempo erano parte attiva. 

 

Di fronte alle istanze definite dalla necessità di operare sulle tracce dell’attività passata dell’uomo, il progetto deve aspirare a reinterpretare ciò che già esiste, secondo una concezione del riuso non meramente strumentale, piuttosto come possibilità di ripensamento e di innovazione che, io credo, possa ritrovare alcuni fondamenti di ordine generale e di tipo operativo nel concetto di dialogo in architettura. Il caso particolare in cui il confronto con un luogo è anche occasione di riuso è il tema che vorrei approfondire in questo saggio.

 

 

2. Riuso, ricomposizione dialogica della forma e del contenuto

 

L’attitudine dell’uomo a rielaborare le spolia dell’età classica, si sa, è una consuetudine riconducibile a un periodo compreso tra la tarda età imperiale e gli albori del Rinascimento. Tuttavia il riuso dei luoghi va oltre la questione del mero “riutilizzo” strumentale e simbolico di ciò che già esiste. Il progetto di modificazione di un edificio o di un contesto, che ha perduto la funzione originaria, non è semplice ripristino o riattivazione funzionale; piuttosto, esso è un’occasione di ricomposizione di uno scollamento, di una disgiunzione tra “forma e contenuto” che proverò a descrivere ricorrendo al noto «principio del distacco» delineato da Erwin Panofsky nel 1960[1].

 

Panofsky sottolinea che in tutto il medioevo, «ogni volta che un’opera d’arte prende in prestito uno schema [una forma] da un modello classico, [..] a questo schema si attribuisce quasi sempre un significato non classico, e ogni volta che un’opera d’arte trae il proprio tema […] dalla mitologia del mondo classico, questo tema è senza eccezioni rappresentato secondo uno schema formale non classico, solitamente contemporaneo»[2]. Lo storico dell’arte Bruno Pedretti ha messo in evidenza le similitudini tra il principio di Panofsky e il distacco tra forma e contenuto, tra struttura e significati, che segue la perdita di funzionalità di una preesistenza.  Egli ha sottolineato come, davanti ai tanti casi di disgiunzione, che con il “moderno” è divenuta vera e propria discontinuità con il passato, le discipline della tutela e della conservazione hanno opposto i principi dell’”autenticità e dell’originalità” nel tentativo di «sottrarre il passato alle aggressioni della storia successiva»[3]. Ora, di fronte al costruito in disuso, non possiamo porci secondo un metodo regressivo di conservazione integrale, né di completa discontinuità del nuovo. Se da un lato il moderno aveva esasperato il distacco tra la forma (storica) e la funzione (moderna), introducendo i principi del ricominciamento e della tabula rasa, il progetto odierno, nella forma del dialogo, avvia un tentativo di ricomporre la relazione disgiunta tra forma e contenuto.

 

In questa prospettiva, la pratica dialogica nel riuso costituisce una declinazione specifica dell’azione progettuale che prende il via dal riconoscimento di un confronto interrotto. Mi riferisco al confronto tra idea e opera, tra forma e progetto, tra tensione ideale e realtà pratica e tecnica, che prende il via nella fase della creazione dell’edificio, che si stabilisce nell’incessante confronto tra le aspettative d’uso e la realizzazione pratica, e che perdura nei tempi successivi della continua modificazione. Quel dialogo originario è interrotto dalla disgiunzione tra forma e contenuto che segue la perdita di funzionalità e l’abbandono del manufatto; spetta al progetto tendere verso una nuova unità. Questo può accadere quando l’opera non si sostanzia in un atto di distacco e di negazione della memoria, ma costituisce, nella continuità, un’evoluzione, una prosecuzione. Descriverò questo punto di vista facendo riferimento ad alcune opere che ritengo significative ed esemplificative al riguardo.

 

 

3. Il progetto di completamento, continuazione del dialogo

 

Nel progetto di casa Gugalun, Peter Zumthor realizza un’abitazione che nasce in un contesto sensibile, la vallata di Safien, situata ad una ventina di chilometri da Coira. La nuova casa è un ampliamento di un antico casolare tradizionale in disuso. Essa è formata dalla preesistenza e da un’aggiunta posta in continuità costruttiva con la prima. La concatenazione tra vecchio e nuovo è stata ottenuta giustapponendo al casolare un corpo di fabbrica che attiva un dialogo con la preesistenza. Proprio nella pratica dialogica si riattiva il legame disgiunto tra forma e contenuto, che nel caso di Coira si declina nella reinterpretazione della tecnica tradizionale del strickbauten (costruzione a maglia), la costruzione fatta da travi massicce disposte a incastro. Zumthor dialoga con la preesistenza individuando nel tema della maglia costruttiva l’elemento fondativo e procede non imitandola, ma mutuandone il carattere costitutivo in una nuova articolazione. In questo modo definisce il tema del progetto come ampliamento e continuazione che, nella nuova declinazione, mantiene la matrice generativa della costruzione a incastro. L’oggetto nuovo trova una coerenza e una compiutezza nel dialogo con l’antico, individua e ricongiunge i fili delle relazioni costitutive ricomponendole secondo una nuova espressione nella nuova forma.

 

Se Zumthor a Coira opera in continuità con la preesistenza, Giorgio Grassi invece, nel progetto di restauro e completamento del castello di Abbiategrasso, da destinare a nuova sede municipale, instaura un rapporto paritario tra le rovine e le nuove forme del completamento. La tipologia a corte è ricomposta come reinterpretazione della corte originaria, riproposta nel progetto come luogo di scambi e di affari.

 

Questo è il primo progetto in cui Grassi affronta il tema del rapporto tra nuovo e antico, tema che diverrà centrale nella sua esperienza di architetto. Ad Abbiategrasso egli completa gli edifici esistenti con corpi nuovi che definiscono una corte: le parti storiche e quelle nuove convivono con un ruolo paritario, tese entrambe alla definizione compiuta di una tipologia esplicita e riconoscibile. Le aggiunte che la compongono sono caratterizzate da un disegno essenziale, minimale ed astratto. La tensione tra figura antica e riduzione moderna raggiunge la massima intensità all’interno della corte, dove un setto in rovina si contrappone ai nuovi prospetti che ripropongono il disegno di un porticato in una sua declinazione rigida e compiuta. Ad Abbiategrasso nuovo e antico, come si è detto, convivono in pari grado senza confondersi: resistono ad una definitiva sovrapposizione ed anzi sottolineano i punti di incontro con dissolvenze suggestive e calibrati disassamenti. In quest’opera Grassi percepisce la rovina come brano di un dialogo interrotto e sospeso, quello passato intercorso tra i luoghi e il costruttore. Così egli procede in continuità, non proponendo una ricostruzione filologica nostalgica e imitativa, ma reinterpretando i caratteri fondativi del tipo originario: in questo modo egli scrive un brano aggiuntivo del dialogo interrotto tra forma e contenuto, tra le aspettative del progetto e della sua rappresentazione.

 

In questo progetto Grassi definisce forme dialoganti con l’esistente, autonome e paritarie, complementari e autosufficienti. Così il progetto diviene legittima reinterpretazione dei principi costitutivi del tipo originario e riproposizione legittima in forme contemporanea e non imitativa, tanto che la nuova funzione introdotta (la sede municipale) è secondaria e non assume un ruolo dominante nella relazione dialogica riattivata tra “l’oggetto del progetto” e la sua rappresentazione.

 

 

4. La resistenza del luogo e la soluzione dialogica

 

A Coira e ad Abbiategrasso, il dialogo con la preesistenza è centrale nella definizione del progetto, e l’adattamento funzionale è in secondo piano rispetto al confronto operato sul piano della materia e della forma. Differente è il caso in cui l’azione progettuale prende corpo non più come aggiunta o completamento, ma come negoziazione con una preesistenza avente un carattere compiuto e definito da una spazialità dominante. È questo confronto, che a tratti diviene opposizione, che caratterizza il progetto di riuso dell’ex centrale elettrica del South Bank, a Londra, trasformata all’alba del nuovo millennio nello spazio museale della Tate Modern Gallery. L’intervento si è articolato nel dialogo con il manufatto storico, un colossale contenitore industriale, dismesso e abbandonato dal 1981. L’edificio originario ha una presenza intensa, per compattezza e colore, austera per il carattere dichiaratamente industriale dei paramenti in mattoni, dei telai strutturali in ghisa, delle macchine per la produzione dell’energia che un tempo ingombravano la sala delle turbine, oggi divenuta un grande spazio di ingresso al nuovo museo. Sono gli stessi progettisti a descrivere questo confronto che, a tratti, nella fase di sviluppo dell’idea, è divenuto contrapposizione: «una gran parte del nostro lavoro è stata, in definitiva, un lavoro di sgombero. E soltanto poi abbiamo inventato l’edificio in quanto museo. Ma questo inventare era sempre molto vicino a quello che c’era, tanto più il risultato era, in un certo senso, ridicolo perché la sostanza preesistente era sempre più forte»[4]. L’atmosfera industriale e le invarianti dell’edificio sono state tanto presenti nello sviluppo del progetto da generare un risultato non ripetibile, che nasce proprio dal dialogo con il carattere del luogo e con il tipo di collezioni da esporre. Ne è derivato un confronto pacato, articolato in un linguaggio discreto, che ha accenti di novità nei prismi vetrati che si affacciano lungo la sala delle turbine e sulla copertura, come brani di un confronto contemporaneo tra passato e presente.

 

 

5. La dimensione dialogica nel progetto del paesaggio

 

È forse nella dimensione del paesaggio che l’attitudine dialogica al riuso si fa ancor più necessaria. Il paesaggio è ridefinizione continua dell’esistente e riutilizzo delle risorse a disposizione ricomposte secondo le logiche del lavoro. Il paesaggio è piegato storicamente alle necessità dell’uomo per garantirgli una sussistenza, secondo una regola del necessario che orienti i cambiamenti del suolo, dell’acqua, dell’energia e della vegetazione.

 

Su quest’idea del progetto di paesaggio, come confronto dialogico con i materiali del territorio, si fonda il progetto di João Nunes per la sistemazione dell’Etar de Alcântara a Lisbona. Qui una poderosa infrastruttura per il trattamento delle acque è l’ultimo degli strati della modificazione di una vallata i cui profili morfologici hanno subito svariati adattamenti alle attività dell’industria pesante. Il suo operato è legato ad un’idea di costruzione del tempo: Nunes reinterpreta, riutilizza e trasforma il territorio inutilizzato rileggendo i diversi strati formati dalle modificazioni introdotte dall’uomo. Il progetto di riuso del paesaggio diviene così un dialogo tra passato e futuro, tra diversi strati dell’azione dell’uomo e prende corpo in un ultimo livello capace di riallacciare i fili con il passato, ricomporre le parti e, in questo modo, proiettarle nel futuro. Nell’Etar de Alcântara, Nunes declina quest’idea realizzando un layer vegetativo superiore, una nuova topografia che si sovrappone all’infrastruttura (ultimo in ordine temporale prima dell’intervento di progetto) e che ribalta le gerarchie rievocando un passato immaginato (il paesaggio rurale antico) nelle forme contemporanee della sistemazione del nuovo suolo disposto a coprire l’infrastruttura.

 

 

6. Ricomporre l’”as found”

 

L’idea del progetto di paesaggio come riuso dei materiali che lo compongono, continuativamente adattati e modificati, mi ricorda la poetica dell’ ”as found”, un concetto che nasce nel contesto dell’osservazione dell’ordinario e nell’apertura del progetto a negoziare con le “cose prosaiche”, con gli elementi ritrovati. Una relazione con l’esistente che muove dall’opera di Kurt Schwitters, tra tutte il Merzbau. Quest’opera, andata distrutta nei bombardamenti della seconda guerra mondiale, fu un’installazione in continua modificazione, una creazione in crescita, realizzata tra il 1920 e il 1936 nella casa dell’artista ad Hannover, con frammenti di materia trovata, in continuo divenire e in dialogo costante con lo spazio che la ospitava e che modificava. Un’opera che fu avviata negli ambienti del suo atelier e che si estese nei locali adiacenti l’appartamento dell’artista, nell’appartamento del piano sopra, nella veranda e nel semi-interrato sottostante. Schiwitters rielaborava i materiali di scarto, inutilizzati, distaccati dallo schema originario e li ricomponeva in una nuova forma in cui ogni frammento manteneva la sua autonomia e contribuiva a definire un nuovo insieme astratto, proliferante e non ordinato, riflesso labirintico della mente dell’autore.

 

Quest’idea del residuo, del frammento ritrovato e delle parti ordinarie (“cosi come si trovano”) è oggetto dell’attenzione e della ricerca dell’Indipendent Group, un collettivo  - di cui facevano parte artisti e architetti come Alison e Peter Smithson - che indagava la poetica dell’”as found”. Gli Smithson entrarono in contatto con questa poetica grazie all’incontro con l’artista Nigel Henderson, fondatore dell’Indipendent Group. Attraverso le sue fotografie, Henderson insegnò agli Smithson a osservare le cose in un modo nuovo, cogliendo l’estetica nell’esistente, in tutto ciò che è trovato, definito “as found”. Essi intendevano per “as found” non solo gli edifici, ma anche tutti quei segni che costituiscono le memorie di un luogo e che devono essere lette attraverso la scoperta di come una costruzione di un luogo è divenuta nel tempo.

 

Gli Smithson implementano quest’idea e la verificano nella realizzazione della loro casa per le vacanze, l’Upper Lawn holiday pavilion. Qui il ricongiungimento tra forma e contenuto, tra preesistenza e nuovi usi, è originato proprio dal riconoscimento di alcuni frammenti di un preesistente casolare: le rovine costituite da un basamento, da un focolare e soprattutto dalla massiccia recinzione murale di epoca antica. Questi frammenti sono l’as found con cui gli Smithson attivano un delicato e raffinato confronto: essi costruiscono una nuova casa nella forma di un piccolo padiglione ligneo, traslato lungo il muro rispetto al sedime della casa precedente di un tanto utile a costruire una inedita unità tra antico e nuovo. La sezione della vecchia abitazione, così scoperchiata, è stata trasformata in uno spazio domestico aperto sul paesaggio. Il nuovo padiglione è un balloon frame, delimitato su tre lati da pareti finestrate che attivano un dialogo percettivo con il paesaggio agricolo circostante. Questo progetto è forse una sintesi di diverse sfumature dei possibili modi di reinterpretazione di forme disgiunte dai contenuti. È negoziazione con i materiali del paesaggio, è dialogo con la preesistenza, è reinterpretazione di un frammento in disuso ritrovato e ricomposto in una nuova unità. 

 

Mi sembra che questi esempi chiariscano i caratteri del metodo del riuso inteso come tentativo di ricomporre il legame tra forma e contenuto. Nel problema del riuso, la risposta alla necessità di elaborazione di sistemi di regole, di modi di interpretare le relazioni tra il nuovo e il preesistente, va cercata a partire dalla presa di coscienza che, oggi, è quanto mai difficile sul piano operativo definire dei principia, ammesso che sia perseguibile un fine di questo tipo. Eppure, proprio perché il progetto è in ogni occasione confronto con la preesistenza, è il singolo caso a porre una domanda e una richiesta di interpretazione di domande precedenti, luogo per luogo, a cui il progetto risponde come reinterpretazione dialogica del dato esistente.

 

[1] Erwin Panofsky, Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale, Feltrinelli, 2009, p.105, tr. it. di Renaissance and renascences in western art, Almqvist & Wiksell, 1960.

[2] Ibidem.

[3] Bruno Pedretti, La funzione in un mondo di finzione,  in Bruno Reichlin Bruno e Bruno Pedretti (a cura di), Riuso del patrimonio architettonico, Mendrisio Academy Press, 2011, p.13, p.67.

[4] Jaques Herzog, in Tate Modern, in Domus 828, Luglio/Agosto 2000, p.32.

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