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Città postume.

Costruzione retorica e strategia analitica nelle immagini urbane di Gabriele Basilico

Marco Lecis

With the death of Gabriele Basilico the impressive sequence of his images of contemporary cities remains as a legacy for those architects and urban planners who, over the past thirty years, have imagined and built real cities starting from the photographs and aesthetics of the Milanese master. This is a strong legacy, of great influence and capacity for suggestion, not only in Italy and not only in the field of architecture: a heritage that can be reorganized starting from strategies of resistance to the dynamic flow and to excited rhythms of the metropolises.

The following text has been presented at the international conference La Cultura y la Ciudad, in Granada, Spain, in April 2015, and it has been published in a volume with the same title printed by EUG (ISBN 9788433859396, Granada 2016).

Con la scomparsa di Gabriele Basilico, nel febbraio di due anni fa, si interrompe la sequenza delle sue fotografie delle metropoli contemporanee. Una sequenza che l’autore descrive come «opera aperta e forse infinita» [1], come serie condizionata da una «idea di non finito… una finitezza decisa più dal numero illimitato dei soggetti che da altre cause» [2], e ancora: «finitezza decisa più dalla sazietà e dall’esaurimento» [3]. La serie, cominciata dagli anni ’80, viene esplicitata nel suo senso più pieno alla fine degli anni ’90 e negli anni 2000, con pubblicazioni come Nelle altre città, Cityscapes, Scattererd City, Intercity.  La morte dell’autore è un trauma anche per l’opera: la struttura del flusso risulta improvvisamente tronca e ciò che sembrava essere un commento continuo alla metropoli contemporanea, uno sguardo ininterrotto e parallelo che ne assumeva in tempo reale il senso del divenire, arriva contro le intenzioni originarie a compimento. La serie diviene così patrimonio finito, eredità misurabile: un patrimonio che ha contribuito a costruire la nostra percezione del paesaggio urbano, condizionandola e trasformandola; un’eredità di grande influenza, non solo in Italia. Le fotografie di Basilico hanno spesso confortato gli architetti: con sollievo luoghi senza identità apparivano riscattati dalla precisione di quadri tesi e calibrati, dall’orchestrazione sapiente dei toni. L’occhio generoso del fotografo sembrava trovare le vie della bellezza anche in spazi generalmente trascurati, se non propriamente rimossi. Ma il rapporto tra espressione fotografica e pratica architettonica è meno diretto di come si è a volte sperato e, a ben vedere, la narrazione immaginata da Basilico non è pacificata.  Le serie presentate in Cityscapes e Scattered City sono uno dei modi narrativi di Basilico e neppure il principale: insieme ad esse continuano le pubblicazioni dei molti lavori monografici, in cui la ricerca dell’identità dei luoghi sembra più univoca. Le serie però sono l’apporto più radicale del fotografo, quello più sbilanciato nel tentativo di cogliere la dissoluzione delle città e l’omogeneizzazione delle loro figure: quello che meglio prova a dare un’immagine di questa nuova condizione. E tale immagine non è solo quella del montaggio serrato, tutto velocità e ritmo, ma è una costruzione complessa, giocata su piani diversi e strutturata su tensioni aperte: un’interpretazione solo «liquida» di questo paesaggio trascura la sua dimensione plurale e la densità delle sue dissonanze. I libri citati, infatti, possono essere letti come stream of consciousness per immagini urbane: la vocazione documentaria, lo stile analitico, convivono con una costruzione molto personale, con la scelta autobiografica di luoghi di elezione. Oltre la fluidità c’è un’inerzia di fondo, un attrito che fa nascere la possibilità di una visione alternativa: insieme alla dinamica delle serie emerge un contrappunto dal ritmo più lento, uno sguardo quasi contemplativo. L’aspetto che appare più attuale dei libri di Basilico è proprio questa tensione non risolta tra più modi di visione.

 

1. Dinamica della serie e figure della metropoli In Cityscapes (1999) e in Scattered Ctity (2005) la ricomposizione delle immagini gioca un ruolo decisivo: l’autore affida la significazione più ai modi del montaggio che all’espressività della singola ripresa. Nel primo volume, come già in Sezioni del paesaggio italiano (1996), le foto sono accostate senza margini, tagliate a filo del foglio, in ideale dissolvenza. Molti scatti sono in rapporto diretto sulle due pagine: a volte sono varianti slittate della stessa inquadratura, a volte la continuità è illusoria, dovuta a motivi che si corrispondono accidentalmente. Diversamente che nel disegno dei primi libri, è cercata una forma di ambiguità che disorienti lo spettatore. Lo stesso schema, con leggere variazioni, si ritrova in Interrupted City (1999, dedicato alla sola Milano), Milan, Berlin, Valencia (2001), Berlino (2001, anch’esso monografico), Scattered City (2005) e Intercity (2008).  Città europee e di altri continenti sono presentate senza soluzione di continuità: come un paesaggio ormai uniforme e indistinguibile. Il numero delle immagini suggerisce uno scenario debordante, dal quale, nello sforzo di osservarlo, si esce spossati e disorientati. L’effetto di vertigine è cercato, ma l’opera non si risolve soltanto in questo.  Altri caratteri della narrazione di Basilico emergono dal confronto con alcuni modelli riconosciuti: per esempio con il lavoro dei Becher. I tedeschi ispirano l’idea della serie, la ricerca di una metodologia ripetuta, l’intenzione analitica rigorosa: ma l’interpretazione che ne dà l’italiano si discosta in diversi punti [4]. I Becher trattengono l’individualità dell’autore al di qua delle scelte compositive, volutamente inespressive, quasi automatiche: nelle sequenze del milanese l’intenzione dell’autore è invece meno trasparente. Prima di tutto è lui che costruisce la serie individuando elementi di analogia in paesaggi diversi. Inoltre, nonostante l’espressività controllata e la riduzione cromatica (il bianco e nero, per molto tempo quasi esclusivo, che diviene poi bilanciata desaturazione) la retorica di Basilico è più ricca di quella dei Becher, con ampio repertorio di figure e dinamiche compositive più intense. Le sue foto descrivono un paesaggio più vivo, in cui l’edificio appartiene e si integra in uno sfondo dilatato, dove la presenza dell’uomo —anche se omessa nella figura— è sempre evocata in modo indiretto.  Pur concentrandosi solo su edifici e infrastrutture —tanto alla scala paesaggistica quanto a quella della scena urbana— Basilico riesce a trasmettere un senso di umanità che semmai avvicina le sue immagini a modelli più remoti dei tedeschi: ad Atget o ad Evans, maestri dello stile documentario, il cui registro comprende grande varietà di scale e va dalla veduta panoramica all’intensità dei ritratti. Questo senso più umano del realismo è anche ciò che distingue il lavoro di Basilico dalle ricerche di alcuni esponenti della Becher-schule, che pure scelgono tematiche analoghe. Struth o Gursky, per esempio, appaiono concentrarti sulla componente sopratutto straniante dell’oggetto tecnico, di cui provano a ritrarre un’opacità assoluta, davvero indifferente alle sorti di chi ne fa uso. Le foto di Basilico non sembrano quindi avere il carattere trascurabile di immagini da leggersi solo in sequenza infinita. Le scelte sofisticate delle composizioni, il gusto per la modulazione dei toni, un sentimento diverso di pietas per le cose: sono tutti aspetti che le impongono come quadri a se stanti. Le singole foto, prese di per sé stesse, sembrano mettere in questione l’estetica del flusso omologante, la percezione forzatamente distratta.

2. Rallentare la velocizzazione dei processi di lettura dell’immagine «Il grande ruolo che ha oggi la fotografia…è quello di rallentare la velocizzazione dei processi di lettura dell’immagine. Rappresenta uno spazio di osservazione della realtà… che ci permette ancora di vedere le cose… Credo che questo suo carattere specifico di immagine fissa… il fatto di permettere tempi di lettura lenti, tempi di contemplazione e quindi di approfondimento, non sia mai stato così importante come oggi» 5. Le parole sono di Luigi Ghirri ma il senso è condiviso da Basilico che si esprime in proposito in più di un’occasione: e l’idea della «lentezza dello sguardo» diviene poi per il milanese una posizione programmatica.  Come si sa, Ghirri riunisce nell’evento fondativo di Viaggio in Italia il gruppo che segna un passaggio importante per la fotografia italiana contemporanea definendo il rapporto privilegiato con il paesaggio 6. Basilico appartiene a quel gruppo ed anzi è uno dei suoi membri poi riconosciuti come maestri. Si tratta di un gruppo coeso per legami generazionali e di amicizia, più che per scelte stilistiche: lo formano artisti molto diversi che però si ritrovano nella volontà di descrivere un certo tipo di paesaggio. Non il paesaggio della metropoli o quello della grande architettura italiana, ma quello della provincia e dei margini urbani. E di quel paesaggio riprendono anche i caratteri sommessi, i ritmi rallentati: quelli contemplativi, liberi di intrattenersi su dettagli apparentemente trascurabili, curiosi di censire uno scenario ancora in via di definizione. Vi è un’ideologia antimetropolitana nella raccolta Viaggio in Italia, un’ideologia a cui Ghirri sembra rimanere fedele fino alla fine, e che, in termini diversi, non abbandonano neppure Chiaramonte, Cresci, Guidi. Altri, come Barbieri e Basilico, fanno invece della metropoli contemporanea il centro di lavori importanti: il loro sguardo rimane comunque ancora obliquo, come esercitato da distanza straniante, non immerso, senza filtri, in adesione acritica.  Scrive Basilico nel 2006 ad introduzione del bilancio del proprio lavoro: «Rallentare la visione è stata per me una piccola rivoluzione… un ritorno al passato, a quando i fotografi, per necessità tecniche utilizzavano pellicole lente e grandi camere con treppiedi… Ma la ‘lentezza dello sguardo’, in sintonia con la fotografia dei luoghi è diventata per me molto di più: un atteggiamento ‘filosofico’ ed esistenziale attraverso il quale si può tentare di ritrovare una ‘senso’ possibile al mondo esterno» [7].  Dopo la DATAR, Basilico usa per lo più la Linhof con pellicole di grande formato. Questa scelta obbliga all’impiego del treppiede e quindi alla verifica precisa del posizionamento della macchina; l’inquadratura è filtrata attraverso la griglia sul vetro smerigliato; il fotografo usa la tenda, elemento che estranea ulteriormente dal contesto. È una sequenza pratica che esclude la foto estemporanea: per Basilico è la liberazione dall’estetica del «decisive moment» di CartierBresson. Qualcosa di simile aveva già sperimentato Stephen Shore nel passaggio da American Surfaces a Uncommon Places: la view camera trasforma l’estetica cronachistica dello snapshot in procedimento lento, contemplativo [8]. Ed è proprio nella tensione tra soggetto aneddotico e sguardo contemplativo che le foto dell’americano raggiungono la loro espressività più tipica. L’immediatezza è filtrata e trasfigurata in una dimensione più ferma, con grado diverso di realismo.  Per l’analisi obiettiva di un paesaggio in divenire lo sguardo lento sembra dare particolari garanzie: può accogliere un numero superiore di dati ed è aperto all’imprevisto, alla scoperta successiva, alla verifica di una lettura insistita. Un montaggio serrato genera un altro tipo conoscenza, già compiuta e disponibile prima della manipolazione, vincolata al dettato del ritmo.

3. Retoriche di uno sguardo lento «L’archi-figura nell’opera di G. B. è frutto di un ossimoro, di uno sguardo che sembra adottare il latino festina lente, una accelerazione rallentata della sensibilità» 9: Bonito Oliva parla a proposito di Basilico di un ossimoro, di una tensione aperta, che spiega con un motto antico. Il fotografo milanese fa convivere l’adesione al flusso del presente con idee diverse della costruzione dell’immagine della città: costruzione che può servirsi di metodologie lente, che può richiedere contemplazione prolungata. Una tecnica di analisi plurale, complessa, per costruire i suoi strumenti deve allargare il campo oltre la dimensione empirica immediata e può acquisire retoriche e immagini di tradizioni precedenti. Nell’occasione di una intervista 10, chiesi a Basilico delle origini della sua poetica e delle influenze esterne al mondo della fotografia: mi parlò di Piranesi e di Bellotto e discutemmo del topos dell’immagine delle rovine, del suo impiego per interpretare un presente afflitto da amnesie radicali.  Nelle sue foto questi riferimenti non appaiono come semplici citazioni e neppure come tentativi di ricostruire una pienezza perduta: sono strumenti utilizzati per la loro efficacia evocativa, capaci, attraverso rovesciamenti e omissioni, di misurare l’ampiezza delle aporie attuali. Sulle figure ereditate Basilico applica infatti procedimenti retorici contemporanei che deriva e condivide con artisti di diverse discipline. A questo riguardo Stefano Chiodi parla di «inedita sintesi tra la grande tradizione paesaggistica della pittura occidentale e l’esigenza tutta contemporanea di accogliere la natura contraddittoria del mondo e l’eccesso ‘mistico’ e cosmico che al suo interno seguita tenacemente ad abitare» [11]. Piranesi è spesso citato in riferimento alle fotografie di Beirut del 1991: nelle immagini della città distrutta dalla guerra si vuole vedere l’evocazione delle celebri incisioni archeologiche settecentesche. In altre occasioni Basilico riprende proprio i monumenti riprodotti dall’artista veneto: una mostra del 2010 accostava materialmente foto e incisioni con medesimi soggetti [1]2. Ma ciò che davvero avvicina i due artisti sta forse al di là della coincidenza del soggetto archeologico: è la ricerca di un’immagine della città come qualcosa di oltreumano, separato dall’uomo per dimensioni e durata, che faccia da scena alle vicende di chi vi vive con un senso remoto di pietà. Uno iato che Piranesi esaspera mettendo in scena la crisi degli equilibri del classicismo e che Basilico registra come condizione raggiunta del paesaggio urbano nella sua epoca. Si può dire che nelle fotografie l’omissione degli abitanti sia quasi condizione estrema dell’aberrazione proporzionale delle comparse piranesiane; e ancora che gli edifici delle città contemporanee, fotografati come forme impassibili fronteggianti spazi vuoti e dilatati, siano resi così come apparivano all’incisore i monumenti di Roma. E i due artisti condividono pure una viva sensibilità per il degrado delle materie e per i segni del trascorrere del tempo. Di Bellotto Basilico cita il ciclo di Dresda e al ciclo appartiene il quadro che riproduce le rovine della Kreuzkirke, del 1765. Bellotto, veneziano, è pittore cosmopolita, viaggia e vive fuori dai confini italiani e lascia importanti serie di vedute di capitali come Vienna, Monaco, Varsavia. Quando dipinge il quadro del 1765 è di ritorno a Dresda, la città dove ha vissuto con la famiglia e che ha abbandonato —lasciandovi i suoi cari— prima delle distruzioni della guerra dei Sette Anni. Aveva dipinto la Kreuzkirke, ancora integra, in un quadro precedente, ritraendola dalla parte opposta. Il primo dipinto mostra la facciata principale del westwerk mentre quello successivo, rovesciato il punto di vista, descrive le sue macerie: le guarda come una scenografia osservata da dietro le quinte e le inquadra da maggiore distanza. La mole del monumento è ancora leggibile nella rovina: il troncone è sezionato per tutta l’altezza e rivela la sequenza articolata delle scale, la sua natura di macchina tecnica. Il dipinto ha tono pacato, taglio fermo e prospettiva distesa: il crollo appare sullo sfondo di una vista urbana, non è l’unico protagonista. Intorno gli uomini sono molto piccoli e quasi si confondono tra le macerie. In passato il quadro è stato criticato per la composizione arditamente «fotografica» e l’«esteriore fedeltà di motivi… fine a sé stessa, priva di poetica capacità di rievocazione» [13]. Caratteri che oggi sentiamo contemporanei e che avvicinano i modi del pittore alle fotografie di Basilico.  Rimpianto ed angoscia, immaginabili conoscendo la biografia dell’artista, nel quadro della Kreuzkirke sono dissimulati. La rovina è certo un monito, ma il senso dell’ammonimento è sospeso. Il rudere appare pacificato: domina un’atmosfera che è oltre la vita degli uomini che costruirono l’edificio, che lo stanno ricostruendo. È ulteriore perfino alla forma originale del monumento il cui senso ultimo sembra stare al di là dell’esistenza concreta. La chiesa, la città, i suoi spazi, sono tutti sullo stesso piano: sono riprodotti con estrema precisione, con ricercato distacco. Sono resi disponibili per una conoscenza oggettiva: catalogati senza essere giudicati; registrati come cosa propria dell’uomo, senza che il senso o la forma ultima del catalogo possano essere anticipati.

4. Città presente e città postuma Il riferimento alle rovine, la suggestione del quadro di Bellotto, aiutano ad illuminare uno dei modi che ha Basilico di ritrarre la città contemporanea: uno dei molti di una visione complessa, plurale, non risolta in nessuno di essi, completa e viva nella tensione reciproca.  Mentre registra la cronaca della città presente, Basilico guarda anche oltre, verso una possibile città postuma. A Beirut, come nella Dresda di Bellotto, oltre l’attualità delle ferite della guerra, emerge un’immagine della città di straordinaria compostezza, quasi di normalità. In Libano le bombe e le escoriazioni delle armi da fuoco hanno grattato via ogni narrazione contingente, ogni aneddotica, trasformando quella particolare città, con la sua propria storia —anche così tragica, come è il caso di Beirut all’inizio degli anni ’90— in una città come tutte le altre: opera d’uomo proiettata nel tempo, non di uomini particolari né in un tempo specifico. La città, sfuggente e molteplice già nella sua forma chiusa, non può che esserlo anche nel momento della sua dissoluzione: il rapporto tra uomini e territori contemporanei è fotografato da Basilico anche oltre la sua realtà materiale, la sua apparenza tangibile. Le forme della sua narrazione mettono in tensione, dilatano e contraggono, una trama fitta di figure, presenti e immaginate. Sono riferimenti frammentari, che tendono a sovrapporsi o sfuggono via non appena messi a fuoco. Per molti questa condizione del paesaggio urbano è un nuovo grado zero, pura tabula rasa, un piano liscio solo disponibile. Il fotografo milanese la descrive come un territorio ruvido, denso di inerzie, in cui convivono slanci dinamici e obliqui déjà vu.

 

1. Gabriele Basilico, Architetture, città, visioni. Riflessioni sulla fotografia, a cura di Andrea Lissoni, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 115. 2. Ibid., p. 17. La frase è riferita alle fotografie di Bernd e Hilla Becher, che Basilico indica come propri modelli. 3. Conversazione su Scattered city, in VVAA, Scattered City, Milano, Baldini/Castoldi/Dalai, 2005, p. 6.

2. Ibid., p. 17. La frase è riferita alle fotografie di Bernd e Hilla Becher, che Basilico indica come propri modelli.

3. Conversazione su Scattered city, in VVAA, Scattered City, Milano, Baldini/Castoldi/Dalai, 2005, p. 6.

4. Si esprimeva già in questo senso Carlo Bertelli in uno scritto inaugurale per la bibliografia su Basilico: «La fotografia di città di Basilico è all’opposto della ricerca di Hilla e Bernd Becher… l’esplorazione di Basilico ha… una carica fortemente umana e comprende una partecipazione di tipo emotivo». Carlo Bertelli, L’immagine fotografica: la città senza atmosfere, in Gabriele Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche, Milano, SugarCo Edizioni, 1981, p. 7.

5. Luigi Ghirri, Ricerche, in Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Macerata, Quodlibet, 2010, p. 57.

6. Roberta Valtorta ha ricostruito questo momento della recente storia della fotografia in Italia nel libro: VVAA, Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, Torino, Einaudi, 2013.

7. Gabriele Basilico, Appunti di un viaggio 1969-2006, Roma, Peliti Associati, 2006.

8. Si veda al proposito l’intervista a Shore di Lynne Tillman contenuta nel volume Uncommon Places: the complete work, New York, Aperture, 2004, p. 173.

9. Achille Bonito Oliva, L’opus di Gabriele Basilico. Tra catastrofe e saggezza sistemica, in Gabriele Basilico, Appunti di un vaggio 1969-2006, Roma, Peliti Associati, 2006, p. 111.

10. Marco Lecis, «Dialogo con Gabriele Basilico», AIÓN. Rivista internazionale di Architettura, 3, 2003, pp. 134-141.

11. Stefano Chiodi, «La lentezza dello sguardo», in Gabriele Basilico, Leggere le fotografie, Milano, Abitare e Rizzoli, 2012, p. 9. 12. Le Arti del Piranesi, Venezia, Centro espositivo dell’Isola di San Giorgio Maggiore, 2010.

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